Intervista

Titolo

Ospitare opere performative in un ambiente per il fitness con FitArt

Autore

Damjanski  Nina Roehrs  Marialaura Ghidini 

Data

19/08/2021

Titolo del Progetto

FitArt 

Parole Chiave

Testo

Marialaura Ghidini: Possiamo iniziare parlando di cosa vi ha spinti a creare il progetto FitArt?

Damjanski: È saltato fuori durante la pandemia, mentre eravamo tutti bloccati a casa. Io andavo sempre a correre la mattina e in quel periodo non potevo. Sentivo che era importante fare un po’ di movimento, così mi sono immerso nelle app per il fitness e in quello che si può fare da casa. Ne ho scaricate parecchie e le ho provate. Mi è venuto in mente che si possono avere delle performance ospitate in un ambiente di fitness. Nina e io parlavamo da circa quattro anni, quasi ogni mese, e abbiamo avuto una conversazione al riguardo. Abbiamo pensato che potesse essere un modo interessante per fare letteralmente uno spettacolo di performance. E poi c’è stata la mostra.

Nina Roehrs: Eravamo di fretta — credo fosse intorno a Aprile, inizio Maggio — perché c’era il primo lockdown in Europa Centrale e negli Stati Uniti. Per qualche ragione sentivamo che sarebbe finito presto e abbiamo pensato che sarebbe stato meglio far decollare il progetto velocemente. Damjanski ha iniziato a sviluppare l’applicazione insieme a un collega di Lisbona e abbiamo contattato la nostra rete di artisti — per lo più artisti con cui avevamo già lavorato. Poi, sei settimane dopo, eravamo pronti. Dato il lasso di tempo, la fretta che sentivamo, e anche il tema della mostra, Connected in Isolation, aveva molto senso rivolgersi alla nostra rete di artisti digitali, net artist, e persone che gravitano intorno ai dispositivi internet e alla cultura digitale. Avevamo la sensazione che potessero avere una buona comprensione di quello che stavamo facendo, perché l’app non era in funzione a quel tempo, e come artista hai bisogno di un po’ di immaginazione per trovare il lavoro che si adatti alla situazione. Abbiamo anche chiesto ad alcune persone delle opere specifiche e, grazie a tutto ciò, è stato possibile lanciare la mostra in sei settimane.

M.G.: Come ha funzionato la vostra collaborazione? Mi interessa il fatto che un artista, una gallerista e un programmatore abbiano collaborato insieme al progetto. Anche se ho capito che tu, Damjanski, hai lavorato sull’app…

D: Credo ci siamo divertiti molto perché: A, non avevamo così tanto tempo, e B, ci piacciamo molto e ognuno ha le proprie competenze, e così è stato molto bello lavorare su qualcosa insieme e fidarsi l’uno dell’altro con quello che stavamo facendo. Come è stato per te, Nina?

N.R.: Per tornare alla tua domanda sul nostro modo di lavorare, abbiamo avuto una persona coinvolta che si è occupata di gran parte dello sviluppo dal punto di vista tecnico. È corretto Damjanski?

D: Sì. Vasco [Barbosa] si è occupato di gran parte dello sviluppo dell’app.

N.R.: Per me è stato molto divertente perché, come ha detto Damjanski, avevamo parlato per anni, quasi ogni mese, di lavoro e di cose che ci interessavano, ma in realtà non avevamo mai lavorato insieme prima. Il periodo in cui abbiamo lavorato a FitArt è stato anche quello in cui abbiamo realizzato la prima mostra di Damjanski alla galleria. Abbiamo avuto una collaborazione molto positiva. È stato bello discutere su come integrare il nostro network e lavorare sul progetto da zero. In qualche modo è stato anche efficiente.

D: Assolutamente. È stato molto bello il fatto che tu eri lì, Vasco era a Lisbona e io ero qui. Erano due continenti, tre paesi e diversi fusi orari…

N.R.: Abbiamo parlato quasi ogni giorno per settimane! E non ci siamo mai incontrati di persona…

M.G.: Per la mostra?

N.R.: No, mai. Ci siamo sempre incontrati solo sullo schermo!

M.G.: Incredibile. Sembra la mia vita lavorativa…

N.R.: In qualche modo temo che se ci vedessimo in carne ed ossa, sarebbe la fine della nostra amicizia! [risata]

M.G.: Passo a una domanda più generale. Come concepite la curatela online? Soprattutto alla luce del fatto che nell’ultimo anno e mezzo molti luoghi del mondo hanno avuto un rapporto molto limitato, se non quasi inesistente, con lo spazio pubblico come inteso in precedenza — uno spazio di interazione fisica, incontro e negoziazione.

N.R.: Questa è una domanda difficile. Per noi, l’intera faccenda di esporre online o in formati digitali non era così nuova perché come galleria abbiamo fatto molti progetti, anche prima di FitArt, in cui non avevamo nulla presentato nello spazio fisico e nonostante ciò mantenevamo qualche connessione con esso. E penso che per Damjanski, nel suo lavoro, sia molto normale lavorare allo schermo.

D: Sì. Penso che Nina abbia probabilmente più conoscenze di me a questo proposito. Mi chiedo solo una cosa, ed è più una domanda in realtà. Il lavoro che vive online, o il lavoro di net art, o comunque lo vogliamo chiamare, ha sempre un lato performativo, il che significa che le persone devono fare qualcosa. Mi chiedo se questo abbia un impatto sul processo curatoriale?

N.R.: Penso che la cosa più interessante sia che il progetto è avvenuto nello spazio digitale e siamo stati in grado di utilizzare un dispositivo che è abbastanza comune; dando accesso alle persone. Era un’app che chiunque poteva scaricare gratuitamente e in qualche modo si trovava in circolazione. Altrimenti l’intero formato della mostra non sarebbe stato molto interessante per me. Quello che mi ha un po’ sorpreso è stato vedere come l’intera industria dell’arte abbia faticato, e stia ancora faticando, a trovare formati digitali innovativi. La maggior parte di loro si è affrettata a documentare i propri spazi fisici e a lavorare adeguatamente per trasmetterli al mondo, o renderli accessibili alla gente. Ma non ci sono stati molti progetti che hanno davvero lavorato con i prerequisiti del mondo digitale.

M.G.: Sono d’accordo. Penso che il vostro progetto sia uno dei pochi esempi nel periodo del primo lockdown che stava effettivamente cercando di pensare ad un linguaggio diverso.

N.R.: Forse per noi è stato un po’ più facile rispetto a molti altri, perché la maggior parte dei lavori che abbiamo presentato in galleria sono nativi digitali o hanno una certa relazione con lo spazio digitale. Molti degli artisti con cui lavoriamo creano con il computer, o gravitano intorno a temi che sono legati alle culture della rete. Penso che siamo partiti da un altro livello rispetto alla maggior parte delle gallerie o istituzioni.

M.G.: Ciò si collega alla prossima domanda che vorrei farvi. Mi interessano le caratteristiche del lavoro curatoriale online e in rete, e quindi il fatto che voi abbiate lavorato con il linguaggio di un’app per il fitness. Dall’introduzione dello smartphone, e poi dell’App Store e dell’Android Market, il web così come lo conoscevamo, si è progressivamente corporativizzato ed è stato dominato dalla logica del commercio, piuttosto che essere uno spazio per esplorazioni non mediate. A mio avviso, FitArt interferisce con questo sviluppo inserendosi all’interno di questo sistema. Se così, perché?

N.R.: Una domanda che emerge sempre quando si lancia un’app è: la gente deve pagare o è gratis? È stato un sentimento comune che sarebbe stato più vantaggioso per il nostro progetto, che comunque non era orientato commercialmente, renderlo accessibile gratuitamente.

D: Trovo questa domanda interessante perché stai facendo un’affermazione e poi chiedi se è vera… [risata] Se parliamo di “interferire con questo sviluppo inserendosi nel sistema”, una cosa che ci ha portato sulla pista di un’ app è che usarla è un comportamento appreso. Le persone hanno queste app per il fitness sui loro telefoni e quindi le stanno già usando. E invece di cercare di insegnare alle persone qualcosa di nuovo, abbiamo deciso di andare dove le persone hanno già sviluppato un comportamento, e poi di dare loro una prospettiva diversa, come utilizzarla. Questo è parte del concetto di questo progetto.

N.R.: In un certo senso, abbiamo solo usato un’infrastruttura esistente per portare questo progetto il più agevolmente possibile al maggior numero di persone possibile…

M.G.: Uno dei motivi per cui ho trovato il progetto interessante è che guardava criticamente al rapporto che abbiamo con le app per il fitness. Fa parte della vostra idea iniziale? Un po’ come quello che dicevi tu prima Damjanski: “Andavo a correre e quindi usavo questa app” e hai iniziato a rifletterci sopra…

D: Sì, assolutamente. Penso che ci siano molte componenti che si uniscono. C’è l’uso di questa app e l’utilizzo di un formato che è a disposizione per la performance, ma allo stesso tempo, c’è la critica delle app per il fitness. Oltre all’aspetto del fitness, c’è l’aspetto psicologico e un aspetto artistico. Quindi il progetto è come un allenamento per la mente, probabilmente.

M.G.: Ci sono state delle difficoltà? 

N.R.: Abbiamo avuto alcune difficoltà, ma è stato relativamente facile perché Damjanski e Vasco sono super esperti su come far funzionare queste cose e nel passare attraverso il vaglio di Apple e Google. Ma abbiamo avuto dei responsi inaspettati quando abbiamo provato a metterlo sull’App Store, specialmente con Apple che non ha gradito un telefono Android in uno dei video.

D: Sì. Ho creato molte applicazioni come opere d’arte, e c’è sempre questa linea sottile tra utilità versus progetto artistico, specialmente quando parli con Apple — se è più sul lato artistico a volte fanno fatica a capirlo. A volte capita che vengano rifiutate e devi occupartene spiegando qual è il tuo obiettivo. E a volte ci sono restrizioni nei confronti del corpo, come il fatto di non poter mostrare persone nude, per esempio. Quindi bisogna lavorare all’interno di questi confini.

M.G.: Avete dovuto far approvare anche il contenuto dell’app dunque? Voglio dire, è il contenuto ad essere esaminato o solo la funzione dell’app?

N.R.: Penso che il contenuto sia vagliato. E abbiamo ricevuto commenti sul contenuto solo al primo tentativo. Riguardava un lavoro di Evan Ross che mostra un telefono Android perché Apple non fa pubblicità per i telefoni Android — un po’ ridicolo. 

M.G.: FitArt si è appropriato del linguaggio delle piattaforme social media, come il modo di vedere le Instagram Stories. Potete dirmi di più sulla scelta di lavorare con il linguaggio di queste piattaforme e quindi con le abitudini di fruizione create dai servizi online?

D: Questa è una domanda interessante perché ne abbiamo parlato molto. Alla fine FitArt rispecchia il linguaggio di app per il fitness, ma se ci pensi, queste, a loro volta, rispecchiano il linguaggio delle app di social media. Quindi è un mix di entrambi. Nina, per esempio, ha avuto la grande idea di spingersi più in là, e di stabilire un limite di tempo per la mostra in modo che fosse come la maggior parte delle app per il fitness — la maggior parte ha un formato di 7 minuti. E questo ci ha fornito la struttura della durata dell’intera performance e mostra.

N.R.: E ha anche definito quante opere avremmo avuto — abbiamo pensato che trenta secondi per opera sarebbero stati sufficienti. Inoltre non volevamo offrire condizioni diseguali agli artisti, quindi abbiamo deciso di dare a tutti trenta secondi e il risultato è stato una mostra di quattordici opere. In qualche modo le cose sono andate per gradi. Credo ci sia stato un momento in cui ci siamo innervositi per il timore di non trovare abbastanza artisti in tempo, e abbiamo iniziato a pensare a contributi di un minuto ma, alla fine, tutto è andato bene.

M.G.: Per me è stato un formato di successo — se vogliamo usare un termine generico — in quanto ha innescato un certo tipo di aspettative nei visitatori legate al modo in cui si vedono contenuti online, e le opere d’arte sono diventate più forti in quel contesto…

N.R.: Inoltre, attraverso il formato verticale si è in qualche modo costretti a un certo atteggiamento e modo di vedere. Penso che molte cose siano avvenute in modo giocoso — non è che ci siamo messi a tavolino e non abbiamo scritto un testo curatoriale sull’intera faccenda. Le cose sono avvenute passo dopo passo e nel dialogo tra gli artisti, Damjanski, Vasco e me.

D: Sì, sono d’accordo.

M.G.: Molti dei lavori nella mostra Connected in Isolation erano versioni di lavori esistenti. Cosa avete preso in considerazione quando avete lavorato con questo tipo di traslazione — se questo termine è applicabile al vostro lavoro?

N.R.: Come ho già accennato, avevamo la sensazione di essere sotto pressione in termini di tempo e avevamo anche fondi limitati — per creare nuovi lavori per un formato del genere, gli artisti hanno bisogno di tempo e di un adeguato supporto finanziario. Connected in Isolation è stato in qualche modo un progetto divertente che abbiamo fatto per il periodo del lockdown, e quando abbiamo iniziato a pensare agli artisti che avremmo potuto coinvolgere, abbiamo iniziato a considerare opere che ci piacevano. Per esempio, Constant Dullaart, con il ragazzo del DVD, o Olia Lialina, con il hula-hoop. Ritenevamo che le opere fossero perfette. Poi abbiamo iniziato a parlare con gli artisti sul modo in cui avremmo potuto presentare adeguatamente le opere all’interno dell’app. Abbiamo avuto un paio di iterazioni con alcuni artisti, ma Petra Cortright, per esempio, ci ha dato il permesso di tagliare il suo video come volevamo, di usare le sequenze che ci piacevano di più. Una volta che avevamo tutte le opere, la parte più difficile è stata pensare al percorso — l’ordine in cui volevamo venissero presentate.

M.G.: Qual è stato il ragionamento dietro l’ordine di presentazione delle opere d’arte?

N.R.: Damjanski è stato abbastanza bravo con questo. Per esempio, l’idea di iniziare con un’opera che mettesse di buon umore, come iniziare con Petra Cortright…

D: Penso sia stata Nina ad avere una buona idea sul modo in cui la mostra potesse fluire, e poi abbiamo avuto alcune discussioni su determinati lavori. Ma penso che in generale la tua prima bozza dell’ordine, Nina, fosse fortissima. Alla fine, ciò che abbiamo deciso tutti insieme è stato di usare un’opera energica all’inizio, e una che fosse l’opposto, come un qualcosa che calmasse, alla fine.

N.R.: In seguito, abbiamo notato che la maggior parte delle persone non faceva mai l’allenamento completo e si tuffava solo sui singoli esercizi! In qualche modo, abbiamo avuto problemi abbastanza pragmatici.

M.G.: Rispetto a questo Nina, c’è stata una differenza tra il lavorare a un progetto web e a una mostra basata su una app?

N.R.: In realtà, non avevo mai fatto un progetto online prima d’ora. Abbiamo lavorato con sculture digitali in realtà virtuale, e abbiamo presentato Gallery.Delivery e projected.capital di Sebastian Schmieg. In questi casi, però, il web design e la tecnologia erano per lo più dettati dall’artista. Come per FitArt, sono stata più coinvolta nel lato curatoriale delle cose, e nell’aspetto complessivo dei progetti. In questo senso, è stato piuttosto simile.

M.G.: Molti dei lavori della mostra Female Body offrono una critica al modo in cui le piattaforme modellano i nostri stili di vita e le nostre aspettative, e in particolare il rapporto che abbiamo con i nostri corpi. La quantificazione tecnologica del sé è ovunque ed è incorporata nella logica delle app. Come può la curatela (e mi riferisco alle vostre esperienze) aiutare a generare una discussione che vada oltre ciò che è dettato da una tecnologia?

N.R.: Per me, si tratta soprattutto di dare agli artisti — gli artisti giusti con una certa visione critica – lo spazio per esprimersi nel modo in cui vogliono esprimersi.

M.G.: Questo si collega anche a quello che hai detto prima Nina, sul fatto che, durante la pandemia, ci sono stati molti progetti ma solo pochi hanno messo in discussione l’ambiente online, sia i servizi che usiamo, sia le piattaforme che normalmente adottiamo…

N.R.: È molto difficile per le persone che per la prima volta presentano online il proprio spazio fisico, criticare quello che stanno facendo allo stesso tempo. Questo perché per loro è uno strumento, mentre per noi è un ambiente con cui lavoriamo. Come galleria, abbiamo sempre detto di lavorare con l’arte nell’era digitale, e per me si tratta soprattutto di ciò che il digitale provoca a noi come esseri umani nella nostra vita quotidiana. Naturalmente, si tratta anche di nuovi media che permettono nuovi modi di creare arte, ma si tratta anche di ciò che accade quando si usano questi media. Per noi, questo è stato naturale.
Ciò che è stato interessante in Female Body è che abbiamo lavorato con un gruppo di curatori che per la maggior parte non provenivano dal contesto digitale, e avevano la tendenza a scegliere artisti che lavoravano in un contesto molto performativo,
che non avrei avuto modo di conoscere così bene altrimenti. Il tema del corpo femminile è stata una nostra idea perché ci sembrava abbastanza interessante vedere cosa provocano i media/social media sulla percezione del corpo femminile. Abbiamo fornito alcune linee guida, ma alla fine le cose sono successe anche da sole. Nelle linee guida, abbiamo chiesto agli artisti di considerare il medium, l’app che stavano usando. Quindi cercavamo lavori che non fossero solo una qualsiasi performance da inserire nell’app, ma anche qualcosa di meta-performativo che interagisse con il telefono cellulare.

D: Mi chiedo se questa seconda mostra sia meno incentrata sulla tecnologia che non sul corpo, e in che modo la tecnologia influisce su questo corpo. Naturalmente, alcuni artisti hanno risposto a questo aspetto e altri no.

M.G.: Riflettendoci, è quasi come se il progetto FitArt fosse diventato un formato espositivo. Come una struttura, un contenitore, o un modo di esperire l’arte…

N.R.: Sì, questa era anche l’idea quando abbiamo iniziato: avvicinare le persone e l’arte in un momento di allontanamento sociale. Credo che, nel frattempo, anche se siamo ancora in questo clima (restrizioni sociali dovute alla pandemia), ci piacerebbe molto che gli artisti lo usassero come piattaforma in futuro.

M.G.: Abbiamo già discusso la prossima domanda, ma la faccio lo stesso nel caso abbiate qualcosa da aggiungere. Che cosa significa oggi perturbare/interferire con la tecnologia digitale, a livello curatoriale, soprattutto considerando il cambiamento che è avvenuto negli ultimi due anni, e il fatto che il web è per lo più accessibile attraverso piattaforme?

D: Da un punto di vista artistico, mi chiedo se si aprano nuove interazioni e nuovi formati. Può essere l’app di cui abbiamo parlato, o qualcos’altro. Anche un podcast è interessante dopotutto, giusto? Credo che interferisca con le convenzioni della galleria — c’è un aspetto performativo in tutto ciò. 

N.R.: In questo senso non mi sento molto dipendente dalla tecnologia. FitArt è l’esempio migliore perché ci ha fatto anche superare certe dipendenze, come stare insieme fisicamente in uno spazio. Penso ci sia un lato positivo e uno negativo, come in ogni cosa.

D: Mi chiedo se curare in questo momento offra una sensazione di liberazione… Da un punto di vista artistico, i difetti sono sempre aree super interessanti e molto belle da sviscerare e ricercare. Mi ricordo quando Tinder era una novità e ha dato forma a nuovi comportamenti: le persone dovevano ordinare un taxi per la persona che volevano incontrare e con cui andavano al ristorante. Tutti questi nuovi comportamenti che nascono da una tecnologia sono super interessanti.

N.R.: Anche per me. Penso che per noi, come galleria, sia stato molto utile perché in un certo senso ha aumentato la velocità di come il digitale interferisce con il mondo dell’arte, e l’accettazione dell’arte digitale in generale — anche in relazione agli interessi commerciali, come gli NFT. Per me quello che sta succedendo al momento è molto interessante.

D: Dato che vengo dal mondo online, ho osservato che ci sono molti artisti che hanno messo in piedi i loro strani — per strani intendo divertenti — ambienti online, dove curano cose dalle quali sono sempre attratto.

N.R.: Sembra di essere a metà degli anni ’90 quando è nato internet…

D: In effetti è così. È come quando i modem telefonici erano una realtà, e tutti cercavano di capire cosa si poteva fare con un sito web o HTML. Sembra la stessa cosa adesso con la curatela. All’inizio, molte gallerie hanno cominciato a fare solo un sito web e hanno cercato di ricreare l’esperienza della galleria mostrando solo foto di persone, e poi si sono evolute con progetti più coinvolgenti, più orientati all’interazione.

N.R.: La maggior parte delle gallerie che non erano attive nello spazio digitale sono state improvvisamente molto attive nell’ultimo anno. Sono rimasta un po’ sorpresa. Guardavo tutto questo e pensavo: non c’è molto di più che possa fare in questo momento, o non ho voglia di fare niente in questo momento. E ora mi sto lentamente facendo un’idea su quello che vorrei fare dopo. Per alcune persone è stato un po’ sorprendente il fatto che ce ne stessimo fermi e non facessimo davvero nulla — ho fatto un’intervista la settimana scorsa e qualcuno mi ha detto: non hai postato nulla su Instagram da Gennaio…! [risata] In un certo senso Covid ha offerto una grande opportunità per fare un passo indietro e pensare alle cose.

M.G.: Immagino che per alcuni, pochi, aspetti sia stato un periodo di rigenerazione…

N.R.: Certo, questa è una posizione molto lussuosa da prendere, e a volte mi rende molto nervosa. Ma è stato così per me e per la galleria.

D: Questa è quasi la risposta alla prossima domanda…

M.G.: Sì, questa: La pandemia di Covid-19 ha cambiato il vostro lavoro, soprattutto alla luce del dialogo tra essere online ed essere offline? C’è qualcosa che vorreste aggiungere?

D: C’è un meme che mi fa sempre ridere. C’è questo pupazzo che nella prima immagine guarda in una direzione, e nella seconda guarda nella tua direzione in modo un po’ strano. Nella prima immagine c’è scritto: quella che la gente chiama vita da pandemia; e nella seconda immagine, ti rendi conto che è la tua vita normale. Ovviamente, ci sono state cose come l’isolamento sociale, ma allo stesso tempo ho passato la maggior parte del mio tempo davanti al computer a fare la mia arte. Quindi stare a casa non mi sembrava così anormale. Anche se, contemporaneamente, c’erano molte cose che accadevano e che mi sembravano molto anormali. Per me, è stato un po’ come: vai avanti e fai quello che sai fare, e, allo stesso tempo, la pandemia lo ha accelerato. Questo perché più persone hanno guardato il mio lavoro, più persone si sono fatte sentire riguardo cose che volevano fare. Non staremmo parlando di tutto questo spazio degli NFT se non ci fosse stata la pandemia che li ha accelerati. 

N.R.: Per me è stato lo stesso. L’unica cosa che è cambiata è che non ho più tanti incontri di persona come prima, e penso che questo sia molto efficiente in un certo qual modo. FitArt è l’esempio migliore: non hai davvero bisogno di incontrare fisicamente le persone per portare avanti un progetto. Anche se è bello incontrare le persone.

M.G.: Abbiamo già un po’ discusso la domanda finale, che di nuovo deriva da una considerazione personale… Per me è abbastanza interessante che abbiate parlato molto positivamente della pandemia poiché per me è stata un po’ diversa. Ho iniziato a pensare: perché curiamo mostre online?

D: Mi chiedo se quello che stai sentendo ora con noi sia il sottoinsieme di un punto di vista. Se fossi un pittore, per esempio, la penserei diversamente che se venissi da una pratica di net.art.

N.R.: Sì, questo era anche quello che stavo cercando di dire riguardo alla tipica organizzazione d’arte o galleria, che lavora al 95% con opere fisiche che non sono fatte per lo spazio digitale.

D: Le stanze 3D, per esempio, non sono il massimo per la pittura e la scultura. È un po’ come quando è arrivata la televisione e la gente ha cominciato a sedersi davanti alla telecamera e a leggere solo le proprie parti in radio, finché non hanno capito: oh, possiamo davvero divertirci con il mezzo televisivo! Credo sia lo stesso con gli spazi virtuali in questo momento: abbiamo iniziato semplicemente ricreando spazi fisici, ma questo è il primo passo. Il prossimo passo è stimolante: abbiamo davvero bisogno della gravità nella realtà virtuale, per esempio? Abbiamo davvero bisogno di muri o possiamo fare qualcosa di totalmente diverso?