Intervista

Titolo

URL e IRL: Costruire dialoghi e interazioni tra contesti con Greencube.gallery

Autore

Guido Segni  Matìas Reyes  Marialaura Ghidini 

Data

27/07/2021

Titolo del Progetto

Greencube.gallery 

Parole Chiave

Testo

Marialaura Ghidini: Possiamo iniziare parlando di cosa vi ha spinti ad avviare Greencube come galleria online nel 2017?

Guido Segni: Il 2017 è la genesi del progetto, che nasce all’interno di un’Accademia di Belle Arti in un biennio specialistico di Net Art e Culture Digitali. Greencube.gallery nasce da un’esigenza di riflettere su cosa significa organizzare un evento online e prova a rispondere a diverse domande e situazioni che ci si stava ponendo online. E cioè  il rapporto con la cosiddetta dimensione reale e lo spazio pubblico. All’interno di questo corso nacque un progetto intorno al quale costruimmo Greencube.gallery. Il progetto fu poi di fatto il primo evento della galleria, Your Content Is Here: un progetto performativo che si sviluppa come corteo di protesta all’interno della città di Carrara — la città dove si trova l’accademia. Da quell’evento performativo abbiamo costruito tutta una serie di situazioni in connessione e dialogo con la dimensione online. Quindi, l’esigenza primaria era quella di costruire un dialogo stretto tra queste due dimensioni che in parte sono sempre viste come antitetiche, ma che dal nostro punto di vista sono strettamente collegate tra loro.

M.G.: Nel vostro intervento per il webinar La Curatela sul Web (Walkin Studios, 2021) avete detto che “URL e IRL non sono opposte ma solo due forme distinte in cui la materia può esistere in condizioni diverse”. Come concepite la curatela nell’ambiente online?

G.S.: La parola curatela non ci è completamente estranea ma allo stesso tempo non ci appartiene, del resto Greencube.gallery è un artist-run space. Ci sentiamo più vicini al fare artistico più che alla figura tradizionale del curatore, anche se sono due dimensioni che in realtà hanno molti punti di contatto. Per noi la curatela è sviluppare un dialogo, individuare artisti e gruppi curatoriali che in qualche maniera lavorino sul dialogo tra queste due dimensioni. Per noi lavorare online non è la ricerca di progetti solamente tecnologici o una ‘furbata’ — ne abbiamo viste diverse durante una pandemia — per cui un progetto classicamente curatoriale viene tradotto in uno spazio online. Per noi la curatela è semplicemente l’attività di  individuazione di realtà che sappiano lavorare sulle tematiche di dialogo tra online/offline.  

M.G.: Diversi curatori che lavorano in rete hanno definito il processo di lavoro tra la sfera online e quella offline come un atto di traduzione, collegamento e transizione; termini che spesso sottolineano lo scollamento tra le due sfere. Eppure, il vostro lavoro a Greencube è differente, parlate di dialogo e interazione tra contesti. Qual’è il vostro approccio alla curatela di progetti che favoriscono queste interazioni?

Matìas Reyes: É una domanda interessante soprattutto per quanto riguarda la riflessione sul discorso di traduzione. Come dici tu, quando si parla di traduzione è implicito il discorso di traslare un messaggio, di cercare di far passare un certo messaggio da un mezzo a un altro. Ciò, però, segna il fatto che siano visti come contesti separati. Questo vale anche per l’idea di collegamento, che è un concetto meno distaccato ma che comunque sottolinea la necessità di collegare (più o meno forzatamente) due contesti distinti. Per noi il focus della galleria è quello di sottolineare il fatto che i passaggi tra queste due contesti non sono distinguibili. È simile all’idea di mixed media: sono elementi che si congiungono per arrivare a un unico risultato, ma senza sottolineare il fatto che un elemento arrivi fino a un certo punto e l’altro arrivi fino ad un altro. Non si sforza la differenza, quella è data come assodata. Concettualmente non cerchiamo per forza il focus su una forma specifica, come una galleria che tratta solo dipinti, ma ovviamente finiamo in una rilassata scelta di genere, legata al nostro background. Mi viene da pensare all'”onlife” di Luciano Floridi che appunto indica l’impossibilità di distinguere online e offline. Siamo sempre collegati (ovviamente), anche quando non lo siamo. Banalmente, basta pensare all’ansia di ricevere un messaggio quando sei scollegato — cosa potrebbe succedere online mentre non sei online (F.O.M.O.).

M.G.: E’ interessante come hai descritto il vostro approccio usando il parallelo di un’installazione mixed media… Sulla scia di questa risposta mi viene un’altra domanda. Secondo voi, quand’è iniziato il processo di coesistenza palpabile tra queste due dimensioni? Nel mondo dell’arte, per esempio, è stato quando si è cominciato a parlare di Post-Internet, o l’inizio è più legato ad un’innovazione tecnologica come lo smartphone?

G.S.: Penso sia la seconda, perché alla fine l’arte è un riflesso particolare di una sovrastruttura tecnologica. Penso che in parte sia l’accelerazione tecnologica. Mi viene in mente anche un altro fenomeno che è importante da questo punto di vista: i social media, che hanno intensificato gli impulsi e la stimolazione dall’online verso l’offline, e viceversa. Il telefono l’ha resa ancora più pervasiva. Li vedo come due elementi, che non sono stati i soli, che hanno creato un’accelerazione forte. È vero che anche la politica stessa si è trasferita sui social, e dai social è in grado di fare un racconto della realtà che poi viene recepito come realtà. Quindi se devo vedere un inizio, secondo me l’intensificazione tecnologica è stata l’elemento scatenante.

M.G.: Molti dei vostri progetti sono organizzati da curatori esterni. Che ruolo ha la collaborazione nel vostro lavoro? Ha a che fare con l’idea di creazione di dialogo?

G.S.: Sì, assolutamente. Tutti i progetti che sono stati sviluppati hanno nel dialogo tra noi e gli ospiti una parte fondamentale. Il dialogo poi si traduce in tante forme. Da una parte, da parte nostra, c’è l’idea di far rimanere i progetti all’interno di un discorso, che è quello che dicevamo del dialogo tra dimensioni. Dall’altra parte, diamo un supporto concreto allo sviluppo delle idee, che può essere di tipo tecnologico e logistico. A volte ci è capitato di collaborare con curatori che vivevano molto lontano da noi, e abbiamo sfruttato l’online come dimensione ponte per costruire un qualcosa che poi si riversava nello spazio fisico. Detto senza retorica il dialogo è alla base della nostra attività. Non è mai successo che abbiamo preso un progetto già pronto e l’abbiamo collocato dentro a un contenitore. L’unico caso che forse potrebbe rientrare in questa casistica è quello di Gallery.Delivery, che era un progetto preesistente ma che comunque ha avuto una forte ricontestualizzazione all’interno della città di Milano. Tutti gli altri progetti sono stati fortemente pensati in maniera site-specific, quindi non c’è mai stato un progetto recuperato, ma un progetto pensato per il contenitore Greencube.

M.G.: Tra l’altro Gallery Delivery, tra tutti i progetti, è quello che più è avvenuto fuori dalla galleria…

G.S.: Sì. Online c’era la piattaforma di prenotazione algoritmica che poi consentiva di allocare gli slot per le mostre. Quello è stato forse il progetto che di più ci ha tenuto impegnati. Questo anche perché l’abbiamo pensato su un periodo di tempo abbastanza lungo — lo avevamo inserito all’interno della programmazione della Wrong Biennale e, se non ricordo male, siamo partiti il primo Novembre e siamo arrivati fino ai primi di Marzo. Un periodo molto lungo per un servizio che doveva stare in una città dove noi non abitavamo fisicamente, e che dal punto di vista logistico è stato molto impegnativo. Anche Not Only Cigarettes di Luca Leggero aveva una forte predominanza nello spazio reale, anche se logisticamente era molto più semplice visto che si installava all’interno di un distributore di sigarette. 

M.G.: Tornando alle caratteristiche del lavoro online e nell’ambiente di rete. Dalla comparsa dello smartphone, e poi dell’App Store e dell’Android Market, il web, così come lo conoscevamo, si è progressivamente corporativizzato e si è trasformato in uno spazio dominato dalla logica del commercio, piuttosto che di esplorazioni non mediate dal mercato. È come una costellazione di molti agenti e fattori a diversi livelli. Molti dei progetti che avete presentato interferiscono con questo andamento, perché?

G.S.: Credo sia normale perché quello che facciamo abitualmente quando lavoriamo artisticamente nell’ambito digitale, anche se in modalità differenti, lo facciamo in un’ottica di riflessione critica sui mezzi di comunicazione. L’altra cosa che mi viene in mente, più che il discorso mercato e non-mercato (una questione su cui mi sto interrogando sempre più spesso e credo calzi molto con quello che tu ci chiedi) è il fatto che adesso su internet si ragiona sempre in termini di produzione di contenuti. Cioè, le piattaforme sono orientate in modo che gli utenti producano contenuti, sempre e in ogni momento, da redistribuire attraverso gli utenti stessi. Da questo punto di vista il lavoro di Greencube.gallery, anche se forse non l’abbiamo mai esplicitato, non è quello della produzione dei contenuti in senso stretto, ma è quello di costruire modelli di relazione, e momenti di riflessione attorno a certi strumenti più che a certe tematiche. Tanto è vero che, come galleria, non produciamo oggetti artistici (che potrebbe sembrare una presa di posizione da purista), e nemmeno contenuti. Se prendiamo il fenomeno degli NFT di adesso, abbiamo anche lì un prodotto immateriale, idealmente un feticcio, ma che di fatto è un contenuto. Greencube.gallery non produce contenuti, ma situazioni. Ed è per questo che sfugge anche alla logica delle piattaforme, del cosa si mostra online, eccetera, proprio perché ha un impronta fortemente performativa e relazionale — se vogliamo usare termini già usati.

M.R.: Secondo me ricasca tutto all’interno della logica che si è discussa all’inizio. Nonostante siamo una galleria digitale, e quindi entriamo in quella logica, non prestiamo molta attenzione al materiale che viene prodotto dopo la creazione di certe dinamiche. Per noi pesano il giusto, e questo viene dalla nostra formazione. Sta di fatto che poi il finire a mimare, o comunque a intaccare dall’interno certi schemi, come quelli di cui tu parli (i tanti agenti, eccetera), viene da sé perché con l’introduzione dell’internet di consumo (legato allo sfruttamento commerciale) ci tocca muoverci all’interno di questi sistemi. E uno dei modi più semplici che viene agli artisti è quello di giocare con questo. Banalmente, questo è simile al modo in cui le prime Avanguardie interagivano con l’apparato industriale: t’inserisci in un dato contesto e inizi a giocare con quello. È lì che si può dire che inizia a formalizzarsi il carattere “ludens” delle arti. Poi perché la gente lo faccia,… chissà perché? Si trova il medium del momento: muoversi tra le corporazioni..

[risata collettiva]

M.G.: Oggigiorno, cosa significa per voi interrompere/interferire con la tecnologia digitale? Mi riferisco a Greencube, anche se la vostra pratica artistica probabilmente lavora allo stesso livello, e non so se sia necessario fare una distinzione qui…

G.S.: Per le persone che ci sono dentro, non c’è questa distanza abissale tra tra quello che facciamo fuori Greencube e dentro Greencube. Credo ci sia una coerenza, anche se non stretta.
Cosa vuol dire interrompere e interferire? Mi collego alla domanda e risposta precedenti. Secondo me, attualmente, interrompere significa sospendere lo status di produttori di contenuti per le piattaforme. Quindi, come Greencube, significa costruire, attraverso la dimensione online, un momento in cui si costruisce altro. Questo altro può avere tantissimi esiti formali, o può essere un’esperienza meramente performativa piuttosto che una di tipo visivo. Il punto è quello di essere al di fuori dalla logica di produrre contenuti per loro, perché oggi (e forse questo è un pallino che a me personalmente gira tanto in testa), se guardiamo alla quotidianità dell’online come fenomeno di massa, è questo: cosa fa l’utente medio? Si trova a produrre contenuti.
Io sono un po’ più anziano rispetto a Matìas e ricordo con grande nostalgia i momenti in cui l’online era una dimensione fortemente collaborativa e cooperativa. Penso a progetti storici che hanno più di vent’anni, come Indymedia. Le piattaforme come Indymedia — senza volerle mitizzare erano delle piattaforme in cui, sì gli utenti producevano dei contenuti, ma erano contenuti spendibili in maniera differente. C’era una stretta connessione con l’agire nella realtà. C’era l’idea di cooperare assieme, mentre adesso le piattaforme hanno adottato un modello di ipercompetizione, che mette uno contro l’altro gli utenti che si sfidano a colpi di followers e di likes. Per concludere, banalmente la risposta romantica alla tua domanda è smettere di produrre contenuti per piattaforme.

M.G.: È la stessa cosa per te Matìas?

M.R.: In buona parte sì. La mia domanda quando facciamo certe cose è sempre: cosa stiamo facendo? stiamo facendo un prodotto? Non è per fare gli anti-consumisti per forza, ma il punto è un po’ quello per quanto mi riguarda. Il discorso è anche l’accettare che il contesto dei primi user-generated content, la prima ondata di Web 2.0, era abbastanza diverso perché non c’era ancora un sistema istituzionalizzato per poter consumare, e fare soldi sulla situazione. Ora come ora la fregatura è che bisogna approcciarsi con una realtà in cui qualsiasi cosa che si va a realizzare è monetizzata in qualche modo. Quindi in realtà si va a fare gli interessi di una o di un’altra piattaforma. Piuttosto che una questione politica — come: che cosa sto facendo? chissà dove mette soldi Facebook? — è più una questione anti-ideologica per capire cosa stiamo effettivamente facendo a livello operativo.
C’era una citazione di McLuhan* che faceva pensare all’arte come una preparazione alle tecnologie che avanzano. Se uno va a vedere l’impianto critico della net.art, ti preparava per il 2015, o comunque arrivavi meno naïf all’utilizzo e al consumo di certe tecnologie. La questione è che quando arrivano questi apparati spettacolari, si finisce nell’ingenuità dell’utilizzo. Ma se si va a vedere un intervento artistico nella stessa tecnologia di una decina d’anni prima, arrivi più preparato al suo utilizzo quotidiano (usi e non vieni usato, o meno drammaticamente, controlli meglio quanto lo strumento influisce sul tuo uso). Quindi, secondo me, il discorso di interruzione sta nel cercare di guardare “di traverso” una cosa nuova o meno nuova, e riuscire quasi a prevedere la ripetizione tipica, che è infatti la consumizzazione, la monetizzazione, eccetera.

M.G.: Piattaforme digitali, apps e servizi mobili agiscono come intermediari digitali per i compiti più banali in situazioni quotidiane, così come per attività che cambiano la vita come quella di chiedere un prestito. In che modo una mostra online può esplorare tale intermediazione? E perché farlo online?

G.S.: La domanda è estremamente interessante. Se guardiamo quella che è stata la corsa al formato delle mostre online del primo periodo della pandemia, secondo me questa domanda non se l’è fatta nessuno. Durante il primo lockdown, le mostre online riportavano in maniera ingenua il classico concetto di esibizione nella dimensione online, cercando di ricalcarne le sue caratteristiche spaziali (le stanze, le pareti, le opere affisse). Ma in realtà, la dimensione online è una dimensione che ha le sue specificità, che permette di costruire, di interagire in maniera estremamente diversa dallo spazio fisico. Per cui la risposta più banale alla tua domanda è che trovo più interessante andare oltre il concetto di “mostrare” e di costruire un’esperienza che permetta di esperire dimensioni spesso nascoste dal dispositivo digitale come ad esempio la dimensione algoritmica.
In Gallery.Delivery, per esempio, la dimensione online era fondamentale perché il motore che innescava quel meccanismo poi si traduceva nel lavoro dell’addetto alla consegna della mostra all’interno di una casa. Quindi, nonostante online non ci fosse una vera e propria mostra, l’esperienza online era molto più significativa di una qualsiasi mostra online, pseudo 3D, perché innestava un processo in grado di propagarsi nella vita reale.

M.G.: È interessante perché, a livello curatoriale, organizzando il processo del progetto Gallery.Delivery vi siete confrontati con le particolarità di ciò che succede dietro un servizio online. Sembra semplice in superficie ma nasconde diversi livelli…

G.S.: Avremmo molto da raccontare su questa esperienza perché è successo di tutto! Ad esempio, avevamo preso contatto con un servizio di consegne che avevamo trovato con una certa difficoltà, e la settimana prima della prima consegna ci ha abbandonato: Ciao ciao Babbo! [risata] Quindi abbiamo dovuto rimettere in discussione tutto, e a quel punto rivolgerci al mondo delle Accademie di Belle Arti per cercare degli studenti (ci tengo a dire che venivano retribuiti) che potessero svolgere il servizio. Perché gli studenti dell’Accademia? Perché erano quelli che, banalmente, più riuscivano a entrare nello spirito del progetto. Come dici tu, il processo che viene messo in moto per mettere in piedi un servizio del genere è notevole, e noi stessi l’avevamo in parte sottovalutato

M.G.: Anche se ne abbiamo parzialmente già discusso, in che modo la pandemia di Covid-19 ha cambiato il vostro lavoro, specialmente alla luce del dialogo tra URL e IRL, e l’attuale euforia del mondo dell’arte contemporanea nell’‘essere online’?

G.S.: Lo diciamo sempre scherzando… ma essendo che già lavoravamo online abbiamo voluto spararci un po’ a posa, nel senso che, laddove tutti andavano online, abbiamo voluto fare un po’ gli aristocratici abbandonando la dimensione online. Questo lo diciamo con autoironia ma, in realtà, non appena abbiamo visto quello che stava succedendo intorno noi, abbiamo sviluppato un sentimento comune: avevamo messo in piedi nel 2017 una piattaforma di aperto dialogo con il mondo esterno per costruire un confronto tra queste due dimensioni, e nel momento in cui tutto chiudeva e la dimensione reale diventava inaccessibile, ci appariva un nonsense fare una mostra solamente online. Ci interessava costruire uno statement che in qualche maniera marcasse il punto di quello che era il nostro pensiero, appunto: l’URL non è sufficiente — ha bisogno di una relazione con lo spazio reale che lo ospita. Questa è stata la prima fase che in realtà è stata seguita da una fase più ibrida, anche di restrizioni. Se pensiamo a quello che è successo a Ottobre del 2020 e che probabilmente si verificherà anche quest’autunno, stiamo assistendo a una regolarizzazione dell’accesso allo spazio reale, e per questo motivo abbiamo deciso di riprendere la programmazione. Non è stato facile, perché dovendoci confrontare con i progetti che si relazionino con uno spazio reale, programmare è difficile perché non sai che tipo di restrizione ci sarà: se si potrà uscire, se alcune aree saranno chiuse e quant’altro. Per cui stiamo cercando di costruire un qualcosa di compatibile con uno scenario incerto, che sicuramente continua a puntare il dito su questo dialogo.

M.G.: A questo proposito, cosa pensate del termine phygital circa il processo di unificazione dell’online e offline?

G.S.: Fermo restando che non conoscevo questo termine, il discorso è che la pandemia ha accelerato lo spostamento di buona parte delle nostre vite verso la dimensione online. Pensiamo banalmente a come è cambiato il modo di lavorare: adesso lavoriamo tantissimo attraverso i software di teleconferenza — c’è gente che in webcam si mostra giacca e cravatta mentre fuori dall’inquadratura è in mutande o in pigiama. Se ci pensi questa ibridazione ha toccato veramente il quotidiano di tutti, quindi è assolutamente normale adesso che ti possano tirare fuori anche il phygital. Non mi sorprende.

M.R.: Comunque questo termine è del 2014 e quindi non abbiamo scuse: il mercato ha mangiato la nostra galleria oramai una vita fa, e ora dobbiamo cambiare mestiere. [risata collettiva]  Siamo cascati anche noi nel tranello. La definizione che ho trovato dice: un neologismo usato da una catena di ferramenta per annunciare dei robot… Era la catch phrase per vendere un robottino che era un aspirapolvere… [risata collettiva]

M.G.: Ci vorrebbe un progetto al proposito… Passo alla prossima domanda. C’è questa idea diffusa che essere online permetta un maggiore coinvolgimento del pubblico; per cui il coinvolgimento è spesso misurato in termini di quantità e di paese di registrazione di un indirizzo IP. Cosa significa per Greencube.gallery coinvolgere un pubblico online?

G.S.: Questa è una domanda difficile…però nella difficoltà provo a dare una risposta. Che tipo di pubblico online abbiamo in mente quando sviluppiamo progetti? Abbiamo sicuramente in mente il pubblico di un certo mondo dell’arte, un pubblico che sia comunque digitalmente alfabetizzato. Sicuramente non abbiamo la smania marchettara di avere tante visualizzazioni. Detto in maniera molto semplice, Greencube è un progetto di ricerca finalizzato al dialogo tra tra la dimensione online/offline e per questo motivo non ci siamo posti più di tanto il problema del pubblico — non so se questo sia un bene o un male… Matìas, tu che ne pensi?

M.R.: Stiamo ancora capendo bene come comunicare quello che stiamo facendo, quindi figurati quello di distribuirlo tra le masse… 

M.G.: L’ultima domanda parte da un’opinione personale. Penso che la pandemia abbia contrassegnato la morte del curatela sul web come l’ho intesa io fino ad ora, o almeno ha segnato la fine del suo ruolo come spazio di esplorazione della produzione, esposizione e distribuzione dell’arte sul web. Che cos’è il web di oggi?

G.S.: Posto che la ricchezza della (bio)diversità è quella che garantisce la sopravvivenza, credo che avere più tentativi — anche curatoriali — garantisca una migliore evoluzione. In parte è vero quello che dici: l’online, da quando è entrato nel mondo dell’arte, ha innescato meccanismi diversi e ha introdotto diversi concetti. Ma al di là degli esiti formali, ho sempre interpretato la rete come uno spazio più performativo che non uno spazio dove esibire nuovi linguaggi. E qual’è la caratteristica del web oggi? È appunto la sua dinamica algoritmica che oramai si estende a tutto il quotidiano: andiamo a fare fitness e il nostro smartwatch registra il dato del nostro passo del cuore, registrandolo su un dispositivo di storage disperso in chissà quale parti del globo. L’online ospita qualcosa di più di un’immagine o un video da mostrare in una galleria online: contiene a tutti gli effetti una rimappatura della vita che ci circonda. In questo senso credo che la curatela, la sperimentazione artistica in generale, debbano lavorare nella direzione di rivalutare la rete come spazio di connessione cooperativo senza dimenticarsi di esplorarne le zone d’ombra. Quindi, per tornare un po’ al discorso di Greencube, la sua direzione è quella di capire che la dimensione online e quella offline sono due stati strettamente connessi in ogni loro parte e che per questo anche la curatela online di per sé non può prescindere da questa dimensione.

M.R.: Per quanto mi riguarda, non capisco perché considerare quello che si è visto durante la pandemia come curatela online. Era curatela online dal punto di vista meramente formale. Personalmente ho una visione abbastanza pessimistica di tutto l’insieme. C’è stato quell’influsso perché non si poteva fare fisicamente altro, ed era, o una mera (e legittimissima) operazione commerciale o, se voleva essere (anche onestamente) un’operazione critica, non poteva che finire in una statistica mancanza qualitativa — è difficile cercare di approcciarsi alla curatela online (come qualsiasi altra cosa) con la fretta generata dal mercato.
Per fare un discorso un pò aneddotico, basta pensare alla Legge di Sturgeon — uno scrittore di fantascienza degli anni Cinquanta. Sono noti i problemi della critica con il concetto di quel  genere, e quando lo accusavano che il 90% della fantascienza faceva schifo, lui rispondeva: ovvio, il 90% di tutto fa schifo e come tutto la fantascienza non è diversa. E quando c’è stata la pandemia ci siamo visti “tutto” fondamentalmente, perché tutti si sono messi a fare la curatela online. Da un punto di vista più positivo, però, quando vengono a galla queste tirate, mettono anche in prospettiva il resto. È simile al discorso sul consumo e il mercato che si faceva prima: quando il mercato ti mangia una certa fetta poi, a un certo punto, ti rendi conto di cosa stavi facendo, o cosa stai facendo. Ti mette in chiaro che quando pensavi di proporre schemi alternativi, in realtà stavi facendo della roba che era perfettamente in schema. È il discorso che si faceva prima sull’interrompere e l’interferire, e anche sugli algoritmi. È un discorso sull’utilizzo di strumenti. C’è un “consumo” relativamente conscio degli strumenti tecnologici, ma come è naturale ci dimentichiamo cose, perdiamo mordente, e quando ci sono queste tirate per cui il mercato ci viene incontro, si inizia a vedere chi utilizza gli strumenti in modo critico e chi sta tirando l’acqua all’occasionale mulino. Si tende ad accettare il fatale onnivorismo del mercato, ma ci sarebbe da ragionare sul fatto che comunque qualcuno gli stava semplicemente allestendo il tavolo. Non è solo una questione di mainstream, è anche quella di mettersi in gioco con credibilità critica nel momento della pandemia. E affrontare quel tema non era banale. Quindi, quando ci sono queste situazioni infuocate si vede tutto il peggio, in parte, ma è naturale.

M.G.: Mi piace che finiamo su questa nota positiva, e con un approccio pratico. Quindi c’è un 10% di roba che va benissimo…. Grazie!    

* “Sarei curioso di sapere cosa accadrebbe se l’arte fosse riconosciuta per quello che è, un’esatta informazione cioè, del modo in cui va predisposta la psiche per prevenire il prossimo colpo delle nostre estese facoltà.” – Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p.73