Intervista

Titolo

Esplorare formati nativi del web: da spazi interattivi a filtri Instagram con Arte-19 e Art Layers

Autore

Valentina Tanni  Marialaura Ghidini 

Data

30/08/2021

Titolo del Progetto

Art Layers  Arte-19 – Virus Virtual Reality Game 

Parole Chiave

Testo

Marialaura Ghidini: Cosa ti ha spinto a curare Arte-19 – Virus Virtual Reality Games?

Valentina Tanni: Ad aprile dello scorso anno — nel bel mezzo del primo lockdown — sono stata contattata da Dario Minghetti, presidente di Fusolab, una onlus di Roma che si occupa di organizzare attività culturali, didattiche e di scambio sociale sul territorio, soprattutto in periferia. Fusolab stava lavorando a un progetto per il Bando Estate Romana del Comune di Roma e voleva mettere insieme un team di persone con competenze diverse. Nello specifico, avevano bisogno di alcuni curatori che li aiutassero a selezionare artisti per un progetto molto particolare, che cerca di mettere in comunicazione diversi livelli di realtà esplorando la partecipazione in remoto e quella in presenza in differenti configurazioni. Arte-19 – Virus Virtual Reality Games infatti è pensato come un festival in tre tappe: un anno solo online, un anno in formato ibrido e un anno solo in presenza.
Ho subito aderito con entusiasmo perché, soprattutto in quel particolarissimo momento storico, mi sembrava utile — se non indispensabile — sperimentare modalità di esposizione e di comunicazione dell’arte online. Sono stata anche da subito colpita dalla professionalità e dalla capacità immaginativa del team di Fusolab, che ha dato vita a un progetto originale e coinvolgente. Oltre a me, gli altri curatori che hanno lavorato al progetto sono Gianluca del Gobbo e Roberto Di Maio.

M.G.: Arte-19 ha utilizzato la piattaforma MozillaHub per creare uno spazio d’interazione tra artisti e pubblico. Come hai approcciato la curatela del progetto?

V.T: Ho cercato di coinvolgere artisti che avessero in qualche modo già sperimentato modalità interattive, sia online che offline. Inoltre mi interessava che fosse presente una componente performativa, ossia che le opere potessero avere una durata ed essere fruite il più possibile in diretta e in tempo reale. Ovviamente poi tutto quello che è accaduto è stato anche documentato e archiviato, in modo da permettere anche la fruizione asincrona. Un altro aspetto a cui ho prestato particolare attenzione è la diversità dei progetti selezionati, cercando di offrire una campionatura il più possibile varia di cosa si può fare su una piattaforma online: le performance di Mara Oscar Cassiani e di Guildor (che si sono svolte sia fuori che dentro la piattaforma), la proiezione del cortometraggio in machinima di Luca Miranda e le sessioni di disegno collaborativo guidate da Maria Chiara Gagliardi.

M.G.: MozillaHubs è un servizio che è nato come un luogo di socializzazione in uno spazio virtuale, e in Arte-19 la socializzazione è avvenuta all’interno di un ambiente che è stato presentato al pubblico come una “piattaforma pirata”. Puoi dirmi di più sul concetto di pirateria alla base del progetto?

V.T.: Il concetto di “piattaforma pirata” è legato alla meta-narrazione che ha anticipato e accompagnato la programmazione vera e propria di Arte-19. L’idea di Fusolab è stata quella di dare al festival la forma di un gioco, ispirandosi alla più stretta attualità. Un virus minaccia la società e gli artisti vengono confinati in una prigione, accusati di diffondere il contagio e impossibilitati a esprimersi. I partecipanti quindi si trasformano da semplici spettatori in “combattenti” e, dopo essersi arruolati online, devono metaforicamente “liberare” gli artisti per poi godere delle loro opere. Quindi la piattaforma è pirata perché nella cornice narrativa che accompagna il festival gli artisti hanno una “funzione sovversiva”.

M.G.: A questo proposito, trovo interessante il modo in cui il progetto ha sperimentato con la comunicazione. Arte-19 ha proposto strategie di coinvolgimento basate su diversi livelli narrativi. Penso alle comunicazioni della Brigata #VVR sui social media e le email di Fuso-Society VVR. Che ruolo ha svolto la metanarrazione nel progetto?

V.T.: La cornice narrativa, come dicevo, è stata un’idea di Fusolab, che ha costruito una strategia di “arruolamento” degli spettatori organizzata tramite una campagna iniziata diverse settimane prima dell’evento. In quella fase è stato utilizzato un sito web a parte per il reclutamento (rivoluzi.one), ma anche messaggi e-mail e whatsapp. C’era un “nome di battaglia” da scegliere e un “tampone virtuale” da fare. Infine, ci si poteva fare un selfie con una “maschera” da rivoluzionari disponibile come filtro Instagram. La meta-narrazione è stata molto importante sia per la comunicazione del progetto che per la costruzione di un sentimento di comunità tra i partecipanti ancora prima dell’apertura delle porte (virtuali) del festival.

M.G.: Recentemente hai organizzato la mostra Art Layers (2021), un programma di filtri Instagram d’artista. Anche qui, poi dirmi come hai approcciato la curatela del progetto, e il coinvolgimento con il pubblico?

V.T.: Art Layers nasce nel contesto delle celebrazioni per il decimo compleanno di Artribune, una rivista di arte e cultura contemporanea con cui ho collaboro dalla fondazione. Ci piaceva l’idea di commissionare qualcosa di inedito a degli artisti giovani e ci piaceva anche l’idea di lavorare sulle piattaforme social, cercando di coinvolgere i lettori in maniera diretta. Da qui nasce l’idea di una mostra online composta solo di filtri Instagram. In questo caso i criteri guida principali sono stati due: ho scelto solo artiste e artisti italiani e gli ho lasciato massima libertà nella scelta del tipo di filtro da realizzare. Ho volutamente evitato di assegnare tematiche o concept per favorire la diversità e la personalizzazione. Per fortuna questa scelta ha funzionato e i 10 filtri realizzati sono un’ottima campionatura dei tantissimi modi diversi con cui la realtà aumentata può essere utilizzata su Instagram. I filtri vengono rilasciati ogni due settimane (abbiamo iniziato a giugno e finiremo a ottobre) e rimarranno sempre a disposizione sul profilo Instagram di Artribune. In ordine di apparizione online, gli artisti sono: Mara Oscar Cassiani, Giulio Alvigini, Valerio Veneruso, Sofia Braga, Giovanni Fredi, Federica Di Pietrantonio, Chiara Passa, Martina Menegon, Kamilia Kard e Clusterduck. La risposta del pubblico è stata incredibile e ovviamente ri-postiamo e archiviamo tutte le storie che vengono prodotte usando i filtri, andando a costituire una testimonianza credo  molto interessante di come questi oggetti vengono effettivamente utilizzati dall’utenza finale.
Ogni volta che viene messo online un nuovo filtro, inoltre, pubblichiamo sul sito di Artribune una lunga intervista con l’artista, in modo da approfondire la sua poetica e discutere i diversi approcci nella produzione dei filtri AR.

M.G.: Sono interessata a esplorare l’idea d’interrompere e interferire con la tecnologia digitale, e come progetti curatoriali possono esplorare e lavorare con le caratteristiche e gli assunti dei servizi che ci vengono offerti online. C’è un collegamento tra appropriazione e interferenza nel tuo lavoro con Arte-19 e Art Layers?

V.T.: Quando si lavora con gli artisti che utilizzano la tecnologia si genera quasi sempre una qualche forma di “interferenza”, perché ci si discosta da quelli che sono gli usi convenzionali degli strumenti in gioco. Gli artisti sono da sempre interessati a mettere in discussione le tecnologie, a forzarle, a decostruirle e a trovare inedite modalità di confronto con esse. Questa strategia serve non soltanto ad esplorare le estetiche che le tecnologie producono, ma soprattutto ad esplorare gli effetti collaterali che il loro utilizzo provoca, nella società e nei comportamenti delle persone. Questo è un aspetto che ha caratterizzato storicamente il rapporto tra arte e tecnologia — sin dai tempi dell’invenzione della fotografia — e continua ancora oggi a farlo. Credo che tutti i miei progetti, in modi diversi, esprimano questa attitudine.

M.G.: Dalla comparsa dello smartphone, e poi dell’App Store e dell’Android Market, il web, così come lo conoscevamo, si è progressivamente corporativizzato, trasformandosi in uno spazio dominato dalla logica del commercio. Come concepisci il ruolo la curatela online, alla luce del cambiamento dell’ambiente online?

V.T.: Il web, come dici giustamente tu, è cambiato profondamente negli ultimi 10-15 anni, e non nella direzione che auspicavamo. Il peso dell’attività delle grandi corporation — e in qualche caso anche dei governi — si fa sentire con sempre maggior forza, generando un’infrastruttura e un’ambiente sociale incentrati su logiche estrattiviste, basate sul profitto e lesive della privacy. Credo che la curatela —  e non solo quella online — debba tener conto di queste problematiche e favorire il più possibile una maggiore acquisizione di consapevolezza da parte di artisti e pubblico. L’unica strada che possiamo percorrere per provare a combattere questa deriva passa infatti primariamente attraverso la conoscenza delle dinamiche che governano la produzione e la distribuzione delle tecnologie che utilizziamo.

M.G.: Il progetto Arte-19 è stato presentato durante il primo lockdown della pandemia Covid-19. Quell’anno abbiamo assistito ad una migrazione di massa di programmi espositivi d’arte contemporanea online per la mancanza di poter fare esperienze culturali e incontri in ambiente fisico. Molti progetti online hanno mostrato la tendenza o di voler replicare l’esperienza della galleria (OVR) o di utilizzare piattaforme principalmente come mezzi di broadcasting. Arte-19 ha presentato un’esperienza diversa, così come il recente Art Layers. Come ti sei posizionata rispetto a questo scenario?

V.T.: Non ho mai amato l’idea della “galleria online” intesa nel senso letterale del termine — ossia gli spazi virtuali che riproducono le sembianze del tradizionale white cube — e non mi trovo particolarmente a mio agio nell’esplorazione delle classiche “viewing rooms”. Sono sempre stata convinta del fatto che ogni ambiente abbia le sue specificità e che non abbia molto senso “mimare” sullo schermo luoghi e opere che in realtà si vorrebbero fisiche. Fanno parzialmente eccezione i casi in cui le mostre “reali” vengono digitalizzate e rese esplorabili online tramite riproduzioni fotografiche esplorabili a 360 gradi: in quel caso si tratta di forme avanzate di documentazione che possono risultare estremamente utili per tutta quella fetta di pubblico che per vari motivi è impossibilitata a viaggiare, oltre che per studiosi e ricercatori del futuro.
Per questo, cerco sempre di esplorare formati nativi del web, sfruttando la familiarità che gli utenti hanno con determinate piattaforme e determinate interfacce. Nel caso di Arte-19, l’ambiente che accoglieva i visitatori era quanto di più lontano si possa immaginare da una galleria d’arte: era la riproduzione tridimensionale di una piazza esistente di Roma, nel quartiere di Centocelle, popolata da avatar non realistici e con un setting molto più vicino al mondo dei videogame che a quello delle fiere d’arte online. Art Layers invece bypassa totalmente il concetto di contenitore, presentandosi come una selezione di opere che viene rilasciata “a puntate” e che resta libera nell’ecosistema della app, accessibile a tutti gli utenti, anche quelli che non sono a conoscenza dell’esistenza del progetto curatoriale. I filtri di Instagram prodotti dagli artisti infatti non hanno uno status speciale, ma sono inseriti nel database della app insieme a tutti gli altri.

M.G.: C’è un’idea diffusa che essere online permetta un maggiore coinvolgimento del pubblico; per cui il coinvolgimento è spesso misurato in termini di quantità e di paese di registrazione di un indirizzo IP. Cosa è significato coinvolgere un pubblico online in questi due progetti?

V.T.: Mi sembra un luogo comune che solo in qualche raro caso trova riscontro nei dati reali. Essere online permette di coinvolgere più persone solo “potenzialmente”, ma non è detto che ci si riesca. Non basta mettere una cosa su Internet per far arrivare il pubblico e tanto meno per farlo interagire in maniera attiva; è necessario lavorare sulla comunicazione, sul coinvolgimento e sulla costruzione del processo di partecipazione tanto quanto si fa per un progetto “offline”.

M.G.: Penso che la pandemia abbia contrassegnato la ‘morte’ del curatela sul web come l’ho intesa io fino ad ora, o almeno ha segnato la fine del suo ruolo come spazio di esplorazione della produzione, esposizione e distribuzione dell’arte sul web. Che cos’è il web di oggi?

V.T.: Io non penso che la pandemia abbia determinato la morte della curatela online. La differenza è che ora ci troviamo a lavorare in un ecosistema che è sempre più affollato e sempre più mainstream. Non è più una nicchia. Lavoriamo in un contesto ipertrofico, caratterizzato da un’offerta quasi insostenibile in termini numerici e tremendamente omologata dal punto di vista dei formati. Tuttavia, proprio per questo è ancora più necessario sperimentare e proporre modelli alternativi, per scongiurare l’omologazione e continuare a mantenere in vita lo spirito comunitario e libertario che la rete ancora possiede e può esprimere.