Intervista

Titolo

Creare incontri in diretta tra le persone e il paesaggio (e tra le opere d’arte e il pubblico) con Field Broadcast

Autore

Rebecca Birch  Rob Smith  Marialaura Ghidini 

Data

18/09/2021

Titolo del Progetto

Field Broadcast 

Parole Chiave

Testo

Marialaura Ghidini: Cosa vi ha spinto a iniziare Field Broadcast nel 2010?

Rob Smith: È emerso da entrambe le nostre pratiche artistiche come un interesse condiviso nel lavorare direttamente con il paesaggio. Ed è anche emerso da un interesse per le potenzialità di lavorare con le tecnologie digitali per creare connessioni tra artisti e pubblico, e tra artisti e artisti. C’erano molte opportunità per sviluppare nuove cose su queste piattaforme che all’epoca sembravano nuove. A quei tempi, stavo anche lavorando su progetti in cui utilizzavo sensori digitali e li distribuivo in luoghi remoti. Per esempio, ho realizzato un progetto intitolato Windscale dove ho posizionato un anemometro con una videocamera attaccata ad esso su una torre Martello in Jaywick nell’Essex (Regno Unito).

Rebecca Birch: Sì, si trattava di un’installazione che durava un anno e si collegava allo sfondo del desktop. Si poteva scaricare l’applicazione e poi il desktop mostrava le ultime informazioni dall’anemometro sulla torre Martello. Il numero di pixel nell’immagine rispondeva alla velocità del vento…

R.S.: A mano a mano che il vento aumentava, l’immagine diventava più sgranata. In particolare ricordo di aver avuto una conversazione con Rebecca in cui disse: “Wow, è davvero entusiasmante perché sei lì e hai questa immagine sullo schermo e puoi vedere che il sole sta tramontando nell’immagine, e poi tu [pubblico] guardi fuori dalla finestra e dici: ‘Oh caspita, quel sole sta davvero tramontando!’” C’era questa sorta di senso del momento, della connessione della luminosità, e anche dell’intersezione degli spazi fisici e digitali. Questo è stato davvero fondamentale per iniziare la conversazione su Field Broadcast, vero?

R.B.: E penso anche il luogo. Perché Windscale venne installato all’inizio dell’anno, e in quel periodo vivevo in molti posti. In parte vivevo nel Sussex, poi sono andata in Olanda, e poi vivevo a casa di mia sorella — ero una specie di senzatetto quell’anno. E nonostante questo, il lavoro di Rob a Jaywick ha viaggiato con me. Era una costante, e trovavo sorprendente il fatto di essere collegata a Jaywick anche in Olanda. Rob stava anche sviluppando altre versioni di questo software, e da quel lavoro venne fuori il software Field Broadcast.

M.G.: È una genealogia molto bella!

R.S.: Su un piano più personale, definisco la mia pratica più basata sulla Land Art e sulle pratiche site-based che su quelle digitali. La mia genealogia è in Nancy Holt e Robert Smithson che iniziano a usare il film come mezzo per creare una connessione tra la galleria e il sito; o nelle trasmissioni televisive di Gerry Schum; o in Chris Welsby che ha lavorato con la cinepresa come apparato per esplorare la temporalità di un sito. Questi sono il tipo di spazi dove ci sono intersezioni tra lo sviluppo di una tecnologia, che non deve essere necessariamente digitale, e la creazione di nuove relazioni con un particolare luogo, e paesaggio. È l’apparato tecnologico che diventa un mezzo creativo per costruire queste relazioni.

R.B.: Per quanto mi riguarda, a quei tempi lavoravo con il paesaggio e facevo video documentari basati sul luogo. Avevo costantemente a che fare con la questione di come tradurre l’immediatezza dell’incontro tra me e un’altra persona sulla telecamera, e nella proiezione del film. Quindi giocavo molto con diverse forme performative per mostrare i film, ma anche con l’installazione stessa dei film per cercare di far entrare quel luogo nella modalità di proiezione. Inoltre, in riferimento alla facilitazione, avevo iniziato a organizzare un progetto chiamato Micro Performance, che era una serie di piccoli incontri con singoli artisti, opere d’arte e performance ai tavoli di pub e caffè che erano aperti al pubblico. Lavoravo con l’intimità dell’incontro, e l’incontro con le opere d’arte nel pubblico, nella vita quotidiana. E il software di Rob era interessante perché poteva portare qualcosa a tutto questo.

M.G.: Sembra la perfetta combinazione di interessi e competenze.

R.B.: Sì. Ci conoscevamo già da circa 10 anni. E gradualmente ci siamo resi conto che c’erano sempre più collegamenti nelle nostre pratiche artistiche.

M.G.: Il progetto ha coltivato le interazioni di artisti con l’ambiente circostante. Potete dirmi di più su come avete esplorato tale interazione — anche in relazione al vostro programma espositivo?

R.B: Siamo stati molto chiari fin dall’inizio sul fatto che ciò che era stimolante nell’idea del Field Broadcast era che il lavoro sarebbe stato eseguito e presentato da un campo [di campagna o pianura], e questo è stato l’invito che abbiamo fatto ad ogni artista per il primo programma — il titolo fu semplicemente Field Broadcast perché non sapevamo che avremmo rtato avanti il progetto! Abbiamo concepito questo campo come un attore all’interno dell’opera, e abbiamo considerato anche il luogo, il tempo e il sito come attori (ora probabilmente li chiameremmo più che umani). Così gli artisti sono partiti tutti da un campo, ed è stato molto interessante perché hanno tutti viaggiato in luoghi particolari per ragioni che spesso erano piuttosto personali. Non abbiamo intenzionalmente invitato artisti che necessariamente lavoravano all’esterno o con il luogo in questo modo. Quindi si trattava davvero di un invito a uscire dalla propria zona di comfort: ti diamo il kit, il Wi-Fi dongle, l’esperienza e l’aiuto per farlo.

R.S.: In quel primo caso si trattava di permettere agli artisti di andare in un campo e produrre un’opera lì. Il software ha agito come un meccanismo che ha permesso loro di farlo, e di connettersi con un pubblico e raggiungerlo. Con Field Broadcast, abbiamo pensato molto al campo come un’unità vuota, una tabula rasa all’interno del paesaggio. È interessante che l0idea che ognuno aveva di cosa fosse un campo era diversa. Penso che questo si ricolleghi all’incontro tra la mia pratica artistica e quella di Rebecca, nel senso che ha davvero portato l’elemento umano nel lavoro artistico e una riflessione sui modi in cui le interazioni umane stanno plasmando il paesaggio.

R.B.: Si parlava di campo quasi come un’alternativa al white cube. Tu Rob, e l’artista Charles Danby, che era molto coinvolto nelle conversazioni iniziali, ne parlavate molto. Ma la maggior parte degli altri artisti non lo vedeva in questo modo: era perlopiù uno spazio culturalmente ricco, appartenente alla tradizione del lavoro paesaggistico. Per quanto riguarda il coltivare, ci ha entusiasmato il fatto che alcuni degli artisti con cui abbiamo lavorato per Field Broadcast (2010) hanno davvero partecipato all’idea, e poi hanno continuato a voler usare il software nei loro lavori.
Gli artisti risposero a Field Broadcast come un’opportunità che li stava aiutando a trasformare il loro modo di pensare la propria pratica artistica e a provare cose nuove. Per questo motivo, abbiamo iniziato a costruire le situazioni in modo più intenzionale. Abbiamo fatto un’uscita all’aperto in un campo come progetto di ricerca, in cui abbiamo semplicemente invitato cinque artisti a venire con noi per un giorno in un luogo specifico dove potevano usare Field Broadcast. C’erano persone come Sarah Bowker Jones, che ha una pratica scultorea e di pittura molto materiale, che si è presentata con materiali del suo studio e li a usati all’esterno.
Abbiamo anche fatto un progetto con il Broadway Cinema di Nottingham (Regno Unito), Caddy Life (2013), che era una sorta di residenza/laboratorio di sviluppo professionale. Lì abbiamo passato una giornata a sperimentare con la tecnologia con diversi artisti, e abbiamo fatto una gita con tutti in un campo solo per testare il software. Così ci siamo anche interessati a Field Broadcast come una sorta di strumento pedagogico per spingere le persone fuori dalla loro zona di comfort.

R.S: Potevamo vedere che c’erano delle potenzialità. Ed è stato anche grazie alle conversazioni con gli artisti (in particolare in Caddy Life) e alle domande che gli abbiamo posto — ad esempio: Come vorresti usare Field Broadcast? — che si è creato un processo reciproco, che ha poi alimentato le nostre pratiche artistiche e il progetto stesso. Per esempio, in Field Broadcast (2010) c’era solo una finestra pop-up dove c’era un singolo livestream. Poi un artista ci ha chiesto: “Perché abbiamo solo una finestra e non possiamo avere più finestre che appaiono sul nostro schermo?”

R.B.: Oppure: “Perché non possiamo avere forme e dimensioni specifiche?”

R.S.: All’epoca avevamo una finestra in 4:3, e gli artisti chiedevano di averne una in 16:9 o una piccolissima nell’angolo, per esempio. Aprendo lo spazio alla conversazione, e credo essendo noi stessi artisti, c’è stata una reattività all’interno del progetto che lo ha reso uno spazio davvero produttivo e stimolante in cui lavorare.

R.B: E l’abbiamo fatto semplicemente invitando artisti con cui volevamo davvero parlare! [risata]

R.S.: Sto ancora lavorando con alcuni di loro, come Matthew De Kersaint Giraudeau. C’è una sorta di retaggio in queste conversazioni.

R.B.: E c’erano artisti come Bram Thomas Arnold e Dan Coopey coinvolti in progetti precedenti, che abbiamo invitato per quello successivo, che è stato West nel 2011. West aveva un numero molto più ridotto di artisti e si soffermava molto di più su un’idea romantica del campo: guardare a ovest verso il tramonto. Era pastorale, come disse Rob. La prima volta che abbiamo collaborato con Dan, Rob ha creato un software personalizzato per la sua animazione. Mentre, la seconda volta avevamo più budget e siamo stati in grado di offrire un pò più di tempo e di sperimentazione. Se la prima volta, Field Broadcast è uscito su due piedi ed era abbastanza casuale, dopo abbiamo iniziato a costruirlo davvero, e a costruire il broadcast, e a lavorare per trovare il modo di avere più budget per trascorrere tempo con gli artisti a sviluppare le loro idee. Quindi sì, suppongo che è così che abbiamo coltivato.

M.G.: Come curatori del progetto, avevate un programma strutturato in cui l’attivazione dei livestream era organizzata da voi, o era più casuale?

R.B.: Sapevamo quando le cose arrivavano. Per Field Broadcast (2010), eravamo al telefono con gli artisti, o sul posto quando ne avevano bisogno. Avevamo anche un flusso di test parallelo, così gli artisti testavano i loro stream prima di mandarli in diretta. Con il tempo, abbiamo cambiato il modo in cui abbiamo facilitato il progetto per lavorare più da vicino con gli artisti. In Field Broadcast c’erano 33 artisti — un numero un pò ridicolo! Mentre in seguito, abbiamo avuto meno artisti e c’era sempre uno di noi che era sul posto con loro (tranne quando erano davvero lontani, come uno che trasmetteva dal Canada in West). Per il programma Scene on a Navigable River (2014), eravamo in un solo luogo dove facevamo una residenza con gli artisti che vennero con noi per una settimana. Quindi sapevamo sempre cosa stava succedendo — per il primo avevamo un foglio di calcolo. Abbiamo curato la casualità, come si suol dire!

M.G.: È un bel modo di fare curatela.

R.S.: Dal punto di vista tecnico, la finestra pop-up veniva di fatto attivata dall’artista che premeva un pulsante dal punto del campo in cui si trovava. C’era un connettore con una singola variabile che diceva a tutti gli altri collegamenti in rete se era in diretta o no. E quando si attivava, ogni altra finestra si attivava sulla rete. In questo senso, se la tempistica slittava, c’era un pò di margine di manovra che permetteva i momenti in cui la connessione di rete falliva, o non eravamo del tutto pronti, o vari altri imprevisti che incontravamo. Non andavamo: 1, 2, 3, via!

M.G.: Field Broadcast ha sottolineato l’importanza di creare una connessione tra l’ambiente naturale e lo schermo. Perché era importante per voi esplorare questa connessione?

R.B.: Inizialmente, per le ragioni di cui abbiamo parlato prima in relazione alle nostre pratiche artistiche.

R.S.: A quel tempo, eravamo interessati all’incontro dal vivo, e a capire cosa fosse questa realtà dal vivo. All’interno dell’incontro dal vivo — in quel momento in cui premi il pulsante sul campo e sai che gli spettatori, da qualche altra parte, stanno ricevendo questa trasmissione sul loro schermo — c’è questa splendida sensazione che ci sia un’intera rete materiale di cose che improvvisamente scattano al loro posto. C’è l’artista nel campo con gli uccelli, o le mucche, o i turisti, o la pioggia, o qualsiasi cosa stia succedendo lì, e poi c’è il computer.
Ciò che era anche molto presente in questo apparato era il dongle Wi-Fi perché, nel 2010, le connessioni di rete erano spazzatura e a bassa larghezza di banda, quindi c’era sempre la possibilità che si interrompesse. Era il percepire la rete: la trasmissione di quel segnale attraverso la rete telefonica, la connessione al sistema a banda larga e poi ai computer della gente. E poi c’era la ricezione del pubblico, seduto ovunque potesse essere — a casa, in cucina, al bar, ovunque ricevesse la trasmissione. A quei tempi, era sempre su un computer desktop, e non su un telefono — non avevo nemmeno uno smartphone quando abbiamo fatto questo progetto! È stato l’entusiasmo per questo spazio dal vivo, e il modo in cui ha portato un sacco di cose diverse insieme, che ci ha permesso di esplorare il campo come uno spazio performativo, e lo schermo come uno spazio fisico per la ricezione di questa collezione di cose.

R.B.: Ci facevamo anche molte domande sul concetto del remoto. Tutta questa rete materiale che collega noi e molte altre persone a un luogo distante. In un certo senso, credo si ricolleghi a vicende come la Land Art e: “Oh, prendo un aereo e vado in un deserto a fare un’opera d’arte che non si può vedere a meno che non si viaggi per secoli”. È qualcosa che esiste solo nello spazio dell’immaginazione perché così poche persone ne sono testimoni. Quindi ha a che fare con l’immediatezza e la trasmissione di un luogo remoto attraverso il broadcast. Ciò era davvero importante per noi: “Come possiamo coinvolgere e capire i luoghi remoti?” È strano perché ora ciò è ovviamente collegato alle questioni climatiche, ad esempio: “Come possiamo portare le persone a contatto con luoghi remoti senza distruggerli, o senza che tutti viaggino?” Sto ancora pensando al modo in cui comprendiamo il paesaggio, e al modo in cui possiamo comprenderlo nella sua trasmissione: “Puoi vederlo? Puoi viverlo in modo diverso?” Credo che Field Broadcast fosse questo: siamo tutti insieme in questa cosa e la stiamo usando insieme. 

M.G.: Diversi curatori che lavorano sul web hanno definito il processo di lavoro tra la sfera online e quella offline come un atto di traduzione, collegamento e transizione; termini che spesso sottolineano la disconnessione tra loro. Qual è la vostra opinione al riguardo in relazione alle attività di Field Broadcast?

R.B.: Come Rob ha appena sottolineato, penso che non sia una disconnessione. È piuttosto che tutti questi spazi fanno parte di altri spazi. Proprio ora, tu e Rob siete nel mio studio — siamo qui insieme nella mia stanza per me, e nella tua stanza per te. Quindi questi spazi non sono separati. Ho accennato al fatto che quando abbiamo iniziato Field Broadcast ho girovagato tra diversi posti per un anno, e quella è stata la prima volta che il desktop del mio computer è diventato davvero una specie di studio, lo spazio che ho abitato e su cui ho iniziato a fare tutto. Questo portatile è diventato essenzialmente la mia casa e il mio spazio domestico. E poi è arrivato il lavoro di Rob e Field Broadcast. Ora è ancora più vero. Alla fine, con Field Broadcast trasmettevamo ai dispositivi mobili delle persone, che ora sono estensioni corporee, ma non sono parte di noi.

R.S.: È interessante perché ora usiamo parole come intreccio o interrelazione, ma a quel tempo, non avevamo questo tipo di linguaggio — lo stavamo ancora trovando. Quindi non c’era questa separazione tra l’online e l’offline. È difficile parlare di Field Broadcast senza pensare a dove ti trovavi nel momento in cui una trasmissione arrivava. Soprattutto perché uno degli elementi più importanti era il suono [ping], questo rumore che faceva quando la trasmissione arrivava. Quando stavamo cercando di archiviare nuovamente il progetto, mi sono reso conto che il solo sentire quel suono mi riportava indietro in un posto diverso e richiamava un sacco di ricordi su luoghi particolari, sia che fossi in un campo o che fossi seduto al tavolo della mia cucina a ricevere le trasmissioni. C’era un vero e proprio intreccio di questi spazi online e offline, come un montaggio di luoghi.

R.B.: Sì, abbiamo pensato un pò all’idea di montaggio. Field Broadcast consisteva nel riunire lo spazio del ricevitore e dell’emittente. Il ricevitore era davvero importante in quanto si trovava in uno spazio domestico. Field Broadcast è andato anche negli uffici e ha interrotto qualcuno che stava tenendo una conferenza perché non aveva disattivato il software. Questi lavori artistici sono stati ricevuti in così tanti modi diversi, e c’erano così tante versioni diverse di essi, che non possiamo conoscerli. Possiamo solo conoscere la versione che abbiamo ricevuto.

M.G.: Tornando a quello che hai detto prima Rebecca, capisco l’idea del computer desktop come una sorta di casa — tutto è lì e organizzato in modo personale, come un record di una vita. Ma non credo che lo stesso accada con il telefono. Anche se è un’estensione del nostro corpo, è molto caotico. Così la ricezione di qualcosa in un momento specifico nel tempo e nello spazio, e l’essere interrotti, è un pò difficile da immaginare per me.

R.B.: In un certo senso, questo mi conduce a come Field Broadcast funzionerebbe o non funzionerebbe ora. Oggi abbiamo una cultura di notifiche costanti, mentre all’epoca non esisteva. Quindi, come dici tu, il tuo telefono è un’interruzione costante. Prima era diverso: la gente guardava la TV in diretta sul computer. Ricordo che avevamo uno screenshot del livestream che arrivava quando qualcuno stava guardando la serie televisiva Bake Off, e qualcuno che era davvero stupito che potesse interrompere lo streaming della televisione dal vivo o la visione di un DVD — sembra così retro adesso! [risata] Penso che Field Broadcast interrompesse una modalità di attenzione diversa dall’essere al telefono.

M.G.: Sono interessata a come i progetti curatoriali possano esplorare e lavorare con le caratteristiche e i presupposti impliciti nella tecnologia digitale che usiamo. E come dite voi, portando le opere d’arte e il campo direttamente sui desktop dei computer delle persone, Field Broadcast ha generato uno spazio di perturbazione della routine quotidiana. Cosa ha significato per voi interferire con l’ambiente desktop?

R.S.: Rebecca, questo è assolutamente il tuo contributo al progetto, il fatto che lo schermo sia diventato uno spazio di montaggio nel momento in cui la trasmissione emetteva il segnale. Questo perché l’interruzione si verificava quando Field Broadcast emetteva un suono e la finestra appariva sullo schermo e si intersecava con qualsiasi altra cosa ci fosse — che fosse guardare un DVD o Bake Off su iPlayer, o che fosse un documento Word o la tua e-mail. La finestra appariva sullo schermo, non lo riempiva, ma era posta lì come un’altra finestra che si intersecava come un montaggio con quelle altre cose.

R.B.: In modo semplice, era una finestra su un altro luogo. Era una finestra che era una finestra.

R.S.: Tutti coloro che ricevevano la trasmissione avevano diverse cose sullo schermo, un diverso disordine e diverse attività in corso. Così ognuno aveva un montaggio unico; ognuno riceveva una versione diversa di una trasmissione. L’incontro con l’opera d’arte diventava multiplo.

R.B.: Il luogo è diventato disperso, il che è qualcosa di cui Smithson parla con i ‘siti specchio’. A questo proposito, ricordo quando ero una giovane artista e facevo la sorvegliante alla Matt’s Gallery [Londra, Regno Unito] la domenica. C’era una sala di lettura dove c’era il comunicato stampa per le mostre, e poi si entrava nello spazio espositivo attraverso una porta chiusa. Alcune persone entravano, prendevano immediatamente il comunicato stampa e entravano nella sala; alcune persone entravano, leggevano l’intero comunicato stampa e entravano nella sala; e alcune persone entravano, andavano direttamente nella sala della mostra e poi uscivano due minuti dopo per prendere il comunicato stampa. Ero sempre molto frustrata da questa faccenda del comunicato stampa; il fatto che non si guardasse l’opera senza prepararsi a capirla. Quindi, in termini di interferenza, sono abbastanza interessata all’incontro con l’opera d’arte quando non si è preparati. 

M.G.: È un approccio interessante che sicuramente non si ha in una situazione di white cube. Ma questo perché lo spazio mette le persone nella posizione di pensare che devono essere preparate mentalmente, in termini di conoscenza, piuttosto che di esperienza.

R.B.: C’è un altro elemento da aggiungere all’idea di perturbazione. Field Broadcast era una fonte di luce — riempiva la stanza del ricevitore. Ricordo che stavo guardando la trasmissione di Bram Thomas Arnold per West. Stava piantando una tenda sul lato di una scogliera e si stava facendo buio, e l’unica fonte di luce nella mia stanza era il computer perché diventava buio mentre lo guardavo. È lì che queste domande sullo schermo erano importanti all’interno di Field Broadcast: come lo schermo potesse diventare qualcosa di più di una superficie, come potesse diventare tattile, come potesse diventare un’esperienza fenomenologica o sensoriale. Sono ancora piuttosto curiosa in questo.

M.G.: Field Broadcast utilizzava un proprio software  (al di fuori del browser web) per ciascuno dei programmi espositivi. Perché avete scelto di lavorare con un software personalizzato, e cosa avete preso in considerazione nel crearlo? Lo chiedo perché l’ambiente digitale è completamente cambiato, e con Field Broadcast avete risposto alle necessità degli artisti attraverso la personalizzazione.

R.S.: La prima cosa importante per noi era portarlo fuori dal browser. Essenzialmente, avevamo bisogno di trovare un meccanismo per cui, quando un artista iniziava a trasmettere da un luogo remoto, non dovevamo assicurarci che il pubblico fosse lì in un determinato momento. Affinché il progetto funzionasse, dovevamo uscire da quell’interfaccia web e trovare un modo diverso in cui lavorare.

R.B.: Ciò con cui stavamo lavorando non era veramente net art in quel senso. Era lavorare con un computer come uno spazio completamente diverso.

R.S.: Il modo in cui ci siamo approcciati alla creazione del software (e probabilmente questa è stata una cosa positiva) era davvero ingenuo. Era incentrato sulla funzione, su: “Ok, come possiamo fare questo?” e controllare se funzionava per il progetto. Non appena incontravamo situazioni in cui parlavamo con persone che effettivamente producevano software, andavano su tutte le furie e dicevano: “Come potete indurre la gente ad installare questo malware sul proprio computer?” Perché essenzialmente questo è ciò che era: un software che toglieva il controllo dalle mani dell’utente e automatizzava i processi. È stato davvero fantastico poter arrivare a questo sviluppo di software come artisti che volevano fare qualcosa. Mentre, se ci fossimo arrivati come sviluppatori di software che volevano fare qualcosa con la trasmissione in diretta, non saremmo mai arrivati a questo modo di creare incontri attraverso lo schermo. C’era un’opportunità lì, nella posizione in cui si trovava la tecnologia in quel momento. C’erano i dongle Wi-Fi  e internet mobile accessibili con abbastanza larghezza di banda da poter fare la trasmissione in diretta da un campo. Ricordo che, all’epoca, usavamo Flash Media server e Adobe Air per creare l’applicazione desktop. 

R.B.: Ma è diventato sempre più difficile gestire il software. Ogni volta c’erano più ostacoli, e istruzioni più complicate al punto che ora sarebbe impossibile.

M.G.: Perché? A causa degli aggiornamenti del software e dei loro diversi requisiti?

R.B.: Sì. C’erano messaggi come: lo sviluppatore non è identificato, o non hai il permesso, oppure non è consigliato. Più tardi, c’era una funzione di Apple (Appnap) che metteva a dormire le applicazioni in sottofondo per preservare la durata della batteria. Nel 2014, abbiamo scritto un’app per il telefono e, all’inizio, abbiamo avuto problemi a farla passare attraverso il processo di approvazione dell’Apple Store perché non c’era interazione con l’utente. Così abbiamo dovuto aggiungerne una altrimenti non avrebbe avuto ‘valore per l’utente’!

R.S.: Pensando alla distribuzione del software, e alla preoccupazione di alcune persone che fosse un malware per i messaggi che il computer dava — tipo: “Ti fidi di questo creatore?”, siamo stati fortunati. Questo perché stavamo condividendo Field Broadcast con un pubblico abbastanza specifico che capiva il progetto e come funzionava. Quindi c’era una fiducia nel rapporto con il nostro pubblico, che è molto diverso da una situazione in cui si crea un software che va a un pubblico sconosciuto che potrebbe essere ovunque senza alcun rapporto con lo sviluppatore. Il nostro pubblico ha capito che questo software non avrebbe danneggiato il loro computer. Questo ci ha dato la libertà di usarlo in un modo diverso.

R.B.: Ci ha anche messo in una posizione abbastanza strana perché, per un pò, eravamo le ‘persone del broadcast’ a cui rivolgersi. C’erano vari progetti con cui collaboravamo, e a volte diventavamo letteralmente i tecnici, il che era piuttosto bizzarro. C’erano parecchie gallerie che ci chiedevano cose come fornire una soluzione per raggiungere il loro pubblico online. Immagino che avremmo potuto cavalcare quell’onda… [risata]

M.G.: Cosa significava coinvolgere un pubblico online per Field Broadcast quindi? E inoltre, chi era il vostro pubblico?

R.B.: Questa è una mia continua frustrazione perché, anche se si potrebbe fare qualcosa che possa essere potenzialmente accessibile a moltissime persone, si tratta comunque di un pubblico piccolo. Credo che la maggioranza del nostro pubblico fosse del mondo dell’arte. E mio padre! Mio padre lo adorava. In un mondo ideale avrebbe potuto essere un pubblico diverso: un pubblico che non va nelle gallerie.

R.S.: Field Broadcast, però, non era finalizzato a raggiungere un pubblico di massa. A quel tempo, era molto bello raggiungere le persone che raggiungevamo.

R.B.: In effetti, era un bel pubblico. Se paragonato alla performance in una piccola galleria o in un project space gestito da artisti, abbiamo avuto grandi numeri. In Field Broadcast, dato che avevamo un gran numero di artisti coinvolti che portavano ciascuno il proprio pubblico, alcune delle trasmissioni andavano a più di duecento persone. Quindi, sì, c’era un qualcosa riguardo all’ampliamento dell’accessibilità in termini di numeri e geografia.

R.S.: C’erano anche le trasmissioni che uscivano alle 4 del mattino con quasi nessun pubblico. Ma questo era il bello, perché questa era la natura del progetto. Finché qualcuno da qualche parte lo riceveva, era fantastico che si creassero quelle connessioni. Ricordo che una volta, durante una conferenza alla Whitechapel [Londra, Regno Unito], qualcuno ha contestato il progetto sul tema dell’accessibilità. Ma il nostro interesse non era nel coinvolgere più persone, era nel creare nuovi modi di incontro attraverso il software, e la relazione tra il digitale e lo spazio esterno del campo aperto.

R.B.:  Per aggiungere a questo malinteso, ricordo il caso di quando abbiamo fatto domanda per un finanziamento dell’Arts Council, e ci hanno risposto chiedendo quali fossero i numeri del nostro pubblico primario. Ci dissero che avevamo fornito solo il numero del nostro pubblico secondario, il pubblico online! [risata]

M.G.: Mi ricordo quei tempi! Erano alle prese con la comprensione del pubblico dei progetti online, e poi hanno cambiato i criteri.

Tornando alla tecnologia che avete usato, in che modo pensate che il panorama digitale del broadcasting  sia cambiato negli ultimi dieci anni? Ciò influisce sul modo in cui prima concepivate il vostro lavoro con il Field Broadcast? Sono molto interessata al fatto che avete sottolineato l’intimità con il vostro pubblico e la fiducia, e sono d’accordo con Rob che questo è piuttosto diverso dal modo in cui ci rapportiamo alle piattaforme di broadcasting al giorno d’oggi.  

R.B.: La maggior parte dei miei incontri con i livestream ora si collocano nell’attivismo, con attivisti che trasmettono in streaming dai campi climatici. Così il livestream diventa uno spazio di testimonianza, ma anche uno spazio per una comunità. Ho seguito un livestream di recente, dove le persone erano lungo una strada a fare una campagna attivista, ma erano anche costantemente in streaming, e altre persone erano lì sul posto, ma in digitale. In un certo senso si collega perfettamente con le cose che facevamo con Field Broadcast. Ma mi chiedo perché non siamo diventati più politici, dato che il livestream è diventato molto rapidamente strumentale per l’attivismo. Quindi penso che siamo stati piuttosto ingenui nell’uso che ne abbiamo fatto. Ora è un modo di guardare, anche altre persone che fanno cose.

R.S.: Come guardare altre persone che giocano al computer — ho tre figli adolescenti.

R.B.: Nelle attuali modalità di livestream c’è qualcosa di totalmente diverso, per esempio, dalla storia della televisione o da altri tipi di trasmissione. Facebook Live mostra il numero di connessioni e le persone che guardano. Credo che prima fosse più una questione di intimità — non so se fosse un’intimità reale o una suggestione ricreativa di intimità — e del qui e ora.

R.S.: All’epoca di Field Broadcast, non c’era un metodo prescritto per lavorare con la trasmissione in diretta nello spazio digitale online. C’erano diversi strumenti. Ci sono stati anche vari cambiamenti nei protocolli nel corso degli anni, e si notava la gente che negoziava come usare il live streaming, e come portare il livestream nello spazio del browser essenzialmente. Penso che per noi ci sia stata una sorta di opportunismo: eravamo lì al momento giusto quando non c’erano questi percorsi prestabiliti. Così c’era uno spazio per la creatività e per sperimentare modi di lavorare. Se dovessimo contrastare questo adesso, l’attuale modo normativo di fare le cose sarebbe un problema.
Ho visto così tanti programmi Twitch durante la pandemia, con la loro chat sullo schermo e il flusso infinito di persone che fanno il tip tap a lato. Questo è diventato il modo di fare trasmissioni in diretta perché è un modo di catturare dati per l’emittente e le aziende coinvolte. Ora c’è un’aspettativa su come le cose dovrebbero apparire.

R.B.: Molte cose che apparivano su Twitch durante la pandemia non erano nemmeno in diretta, erano solo pre-registrate per il pubblico dal vivo!
C’è un’altra cosa di cui abbiamo parlato moltissimo all’epoca: la diretta, e come lavorare con la diretta. A volte le nostre trasmissioni apparivano ovviamente in diretta perché si verificava un pasticcio. Ma ce n’erano altre che erano molto molto scorrevoli. In tutto questo, c’è un aspetto che riguarda la fiducia del pubblico. Quindi la domanda è: è necessario essere in diretta per avere la fiducia del pubblico? E come si acquista o si perde la fiducia del pubblico? Perché nell’idea del livestream la gente deve credere alla sua veridicità.

M.G: Come avete detto, la pandemia di Covid-19 ha generato non solo una serie di mostre broadcast, ma anche un rapporto molto diverso con ciò che ci circonda — abbiamo avuto un rapporto molto limitato, se non quasi inesistente, con lo spazio pubblico come precedentemente inteso; uno spazio d’interazione fisica, incontro e negoziazione. Qual è stata la vostra esperienza nel contesto delle mostre online?

R.S.: Abbiamo già parlato dei livestream di Twitch e del fatto che le persone dicevano che erano eventi live, ma erano video pre-registrati che venivano trasmessi in streaming ad un orario specifico. Ho avuto la sensazione che non avessimo avuto abbastanza impatto nel mondo del livestream! [risata] Ho pensato che le persone si stessero avvicinando al livestream senza considerare le relazioni fisiche o materiali a cui pensavamo con Field Broadcast.

R.B.:  La gente ha la memoria molto corta!
Ho scoperto rapidamente che non avevo alcun interesse per le mostre online, mi dedicavo soprattutto al lavoro di performance, o ai dibattiti e agli eventi. E se partecipavo a qualcosa su Zoom che era in modalità conferenza, dove ti parlano come se fosse una radio, allora mi disconnettevo. Mi è sembrato, come ha detto Rob, che le persone non si occupassero della materialità della questione, o che non ci pensassero. Mi piace molto Zoom, però, e l’ho sperimentato, e Rob ne è stato coinvolto. Recentemente, ho iniziato una serie di lavori sul campo con Zoom dal vivo intitolata Rocky Climates, e abbiamo pensato molto all’obiettivo della macchina fotografica e al guardare attraverso un obiettivo con un gruppo di altre persone che guardano con te online.

M.G.: Ultima domanda. Qual è il ruolo del curatela online nel web di oggi? Lo chiedo pensando al fatto che il web si è progressivamente corporativizzato e è dominato dalla logica del commercio.

R.S.: Penso che ci saranno opportunità di trovare spazi nelle fessure, come è stato per Field Broadcast. Per noi è stata una fortunata coincidenza di tecnologie e cose al momento giusto che ci ha permesso di fare il progetto. Come Rebecca ora, che sta lavorando con Zoom e trova un’opportunità all’interno di quella piattaforma prima di passare a qualcos’altro, perché le tecnologie cambiano. Si tratta di scavare nelle opportunità e di essere coinvolti nelle tecnologie, e non solo di accettare ciò che le aziende tecnologiche ci spingono a fare. Si tratta di metterlo in discussione e guardare all’interno di questi spazi.
Butto una piccola idea di lettura qui in mezzo. La settimana scorsa, mi sono imbattuto in questo principio per il web design e lo sviluppo del software chiamato Principio del Minimo Stupore o della Minima Sorpresa, dove essenzialmente si consiglia agli sviluppatori di software e ai web designer di riprogettare qualcosa se è sorprendente per l’osservatore e renderlo in modo tale che non lo possa sorprendere. È un principio di base che risale agli anni Ottanta, e mi sembra dica: “Fate interfacce web generiche, noiose e poco interessanti”. Credo che sorprendendo questo principio possiamo trovare alcuni spazi creativi e fare qualcosa di interessante online ora. Quindi sono ottimista!